lunedì 26 novembre 2007

INTERVISTA A OLIVIER ADAM

Olivier Adam, autore del libro "Passare l'inverno", è stato recentemente nominato dalla rivista francese Le Figaro, autore nazionale under 40 più amato dalla critica.

Passare l'inverno è la sua prima raccolta di racconti, per la quale lei è stato paragonato a grandi autori di short stories americani come John Cheever e Raymond Carver. Trovo la sua scrittura molto sintetica e precisa, perfetta per la narrazione breve, eppure nella letteratura contemporanea in Francia (come nel resto del mondo peraltro) i racconti non godono di grandi favori di critica e pubblico. Che cosa ne pensa? Lei ama questa forma di scrittura? Perché negli ultimi anni scrive solo romanzi?

In Francia molti autori si sono rivelati attraverso il racconto o i testi corti (Holder, Ravalec, Gavalda, Micron, Desplechin, Rolin e molti altri) e alcuni grandi successi di questi ultimi anni sono proprio raccolte di racconti o testi brevi (Gavalda, Delerm… per citare solo i più clamorosi).
Di conseguenza i racconti godono di un successo molto più ampio di quanto si creda. Ci sono sempre lettori che dicono "io preferisco i romanzi", ma in fondo il problema sta altrove. Il problema è che la maggior parte dei libri di racconti che escono in Francia sono estremamente brutti, e non sono altro che i fondi dei cassetti che alcuni scrittori pubblicano tra un romanzo e l'altro.
È raro che un autore si dedichi a questo genere credendoci veramente. E i pochi che lo fanno lo fanno spesso senza talento, senza capire davvero cos'è un racconto. Confondono il testo breve con un romanzo riassunto, ricercando la storia edificante, la caduta spettacolare, l'effetto… e tutto questo porta a realizzare esercizi di stile a volte brillanti ma sempre senza spessore, senza emozione, senza vita né sostanza. E poi la maggior parte degli autori francesi è chiacchierona.
Di fatto, il racconto non gli si addice perché le ellissi e i silenzi ne sono gli elementi chiave. Credo che gli scrittori francesi abbiano una cultura letteraria troppo "francese" per essere dei bravi scrittori di racconti. In ultima analisi però la nuova generazione, più familiare con Carver, Cheever e altri ne esce un po' meglio.
Quanto a me, Passare l'inverno è il mio quarto libro, preceduto da tre romanzi e seguito da un altro, la mia ultima opera, Falaises. Quindi non sono "passato" al genere romanzesco. È piuttosto il contrario: dopo tre romanzi sono passato per un libro al racconto. Ma questo non significa che io mi fossi attaccato particolarmente a un genere.
Per me poco importa: romanzo o racconti, purché ci sia un libro. Un libro che vibra, mi commuove, mi coinvolge. In quanto autore, Passare l'inverno ha semplicemente risposto a un desiderio di polifonia.
Il desiderio di far emergere delle voci dalla notte d'inverno, e fare in modo che si rispondessero, si confondessero, si facessero eco. A parte qualche racconto a richiesta non ho mai scritto dei racconti isolati. In questo senso non sono un autore di racconti. Sono solo un autore che ha scritto un libro SOTTO FORMA di racconti. In Passare l'inverno la cosa che conta per me è l'insieme. Il mosaico. Quest'immagine che si crea attraverso l'aiuto delle altre.

Nei suoi libri sembra esserci un tema che ritorna, che è quello della separazione, spesso della morte. Perché i suoi personaggi vivono sempre con questo senso di mancanza?

Non lo so. Bisognerebbe chiederlo al mio psicologo… se ne avessi uno. Io sono l'ostaggio dei miei libri, dei miei personaggi, delle mie storie. Non le domino completamente. Ciò che viene fuori dai miei libri è anche un po' fuori dal mio controllo.
Vengono fuori senza dubbio dalle mie paure, dalle mie ossessioni profonde. E poi suppongo che ci sia un modo di attaccarsi all'essenziale delle nostre vite. Si nasce, si muore, ci si perde a vicenda, e queste perdite sono le nostre sofferenze più grandi, e nella maggior parte dei casi queste sofferenze finiscono perché se ne vanno da sé. Eppure tutto questo ci risveglia ogni notte spaventati, terrorizzati, come bambini perduti nel buio.

Fino a che punto spinge "l'autobiografismo" nei suoi libri? I suoi personaggi sono così veri…

Diciamo che nei miei libri, in generale, niente è vero, ma al tempo stesso niente è inventato. Tutto ciò che non ho vissuto direttamente l’ho visto, osservato, sentito profondamente. Sono una specie di spugna, uno che si inventa attraverso le storie. Come direbbe il cantante Bashung: il mondo mi ha reso nero… Non ho mai scritto cose autobiografiche, anche se il mio ultimo libro in Francia è stato accolto come una storia autobiografica mentre si tratta di un romanzo di finzione. In ogni caso non riconosco nessuna superiorità dell'autobiografia rispetto alla finzione e viceversa. Per me, l'unica cosa importante è che ci si creda e non dimentico mai che ogni romanzo è una costruzione, che è comunque cinema. Nell'autobiografia checché ne dicano gli autori, ci si mette in scena, ci si aggiusta, si mente, si tacciono delle cose, si imbellisce, si imbruttisce. In fondo si fa della realtà una finzione.
Io faccio il contrario, faccio in modo che le mie storie siano "menzogne che dicono la verità", tento di catturare verità che vengono dette soltanto attraverso la letteratura. Il più bel complimento che mi si possa fare a proposito di Passare l'inverno è dirmi: "Sì, lei ha ragione, è proprio così. Le nostre vite sono questo. Ma nessuno lo dice." La letteratura mi sembra fatta per questo: combattere i luoghi comuni, gli stereotipi, le generalizzazioni, l'invenzione della realtà e di noi stessi così come ci vengono proposti dai media, dal marketing, dalla politica, dalla televisione, per tentare di dire una verità umana inenarrabile.

In Passare l'inverno ci sono molti personaggi, uomini e donne, che raccontano in prima persona la loro vita privata. Ma nel suo insieme tutto il libro risulta come un affresco della nostra società contemporanea. C'era questa intenzione da parte sua oppure è solo una mia interpretazione?

No, lei ha perfettamente ragione.
L'idea di partenza del libro è un ritratto di gruppo, e sullo sfondo, forse, un ritratto di classe. C'era l'idea di disegnare una sorta di panoramica di una certa società francese, del cuore muto e trascurato delle classi medie o medio basse, per dirla in breve. Chiaramente non si tratta di costruirci sopra un discorso, quanto di dire qualcosa di più profondo sulle vite comuni attraverso nove ritratti sensibili, nove voci diverse: la solitudine, il lavoro, la fatica, la paura di morire o di invecchiare, i nostri sforzi smisurati per essere giusti, corretti, amorevoli nei confronti del prossimo, dei nostri genitori, dei nostri figli, dei nostri amici, dei nostri compagni.

Nella sua biografia si legge che lei si ricorda pochissimo della sua infanzia. Trovo questa notazione molto strana. Lei sembra essere una persona con una memoria di ferro, come tutti gli scrittori del resto…

Tra gli altri motivi per cui scrivo c'è anche quello di colmare delle lacune, tappare dei buchi, tentare di fermare quel poco che resta nella memoria prima che si deteriori e sparisca. Io sono un po' come una busta vuota che i miei libri e le vite che ci sono dentro riempiono a poco a poco. La mia infanzia è un buco nero, una ferita da cui escono a volte una luce, un odore, una sensazione. Così mi aggrappo ai fili della mia scrittura e li tiro, li annodo fino a che sembrano dei ricordi. In fondo mi invento dei ricordi e questi ricordi inventati sono diventati la mia memoria e la mia vita inventata è diventata la mia vera vita. Per il resto non ho nessuna memoria di me stesso, soltanto memoria degli altri. La mia vita non mi interessa, il suo orizzonte invalicabile è quello della calma perfetta e della disponibilità agli altri e alle sensazioni.

Una cosa che mi interessa sempre: in che modo scrive? Ha degli orari o dei luoghi privilegiati? Corregge o cancella molto? La sua scrittura sembra preferire la sottrazione all’addizione, o sbaglio?

Scrivo in maniera piuttosto anarchica. Mi metto alla scrivania solo se ho qualcosa da scrivere, non mi forzo mai e non resto mai davanti al computer senza usarlo. Per la maggior parte del tempo resto dentro al romanzo che sto scrivendo, vivo al suo interno, il libro occupa il mio spirito costantemente: mentre cammino sulle scogliere, passeggio sulla spiaggia, gioco con mia figlia… il lavoro si compie innanzitutto interiormente. Una volta che le cose sono chiare allora mi metto al computer e questo può succedere in qualsiasi momento della giornata o della notte e può durare venti minuti come sei o sette ore. Questo è quello che succede nella prima fase del lavoro quella dell' "espulsione". È in generale una fase abbastanza febbrile, concitata, che capita in mezzo ai rumori della vita: la musica che ascolto senza sosta, mia figlia che gioca nella stanza accanto, i gabbiani che gridano in giardino. Poi comincia il vero lavoro accanito: quello della revisione dei testi. Questa fase è la più lunga, la più studiata e quella che preferisco. A questo punto resto incollato alla scrivania dalla mattina alla sera. È innanzitutto un lavoro di revisione parola per parola, frase per frase, un lavoro sul suono e la materia ritmica. È anche un grosso lavoro di sfrondamento, di tagli, di sottrazioni. In generale, dopo la prima fase dispongo di un materiale due o tre volte più lungo del risultato finale. È come uno scultore che da una massa di argilla tenta di far emergere una forma pura e completamente priva di eccessi.

Quali sono gli autori contemporanei che le piacciono di più? Qual è stata la sua ultima lettura folgorante?

I miei autori preferiti contemporanei appartengono in generale alla letteratura anglosassone: Rick Moody, Richard Ford, Michael Collins, Larry Brown, Robert Mc Liam Wilson, Ian Mc Inerney, Bret Easton Ellis, Jonathan Franzen, Laura Kashishke... leggo anche molti romanzi giapponesi. In Francia mi coinvolgono molto Patrick Modiano e Philippe Djian. Ci sono anche Dubois, Rolin, Michon e alcuni altri, ma devo dire che mi sento sempre più lontano dalla letteratura del mio paese e in particolare dagli scrittori della mia generazione, con i quali ho davvero poche affinità…
Le mie ultime letture importanti: innanzitutto un'anticaglia francese degli anni '40 (ho una vera e propria passione per gli autori francesi degli anni '40 e '50 ormai dimenticati: Calet, Hyvernaud, Perros etc.): Le bonheur des tristes seguito da L'apprentissage des villes di Luc Dietrich. Due libri magnifici. E poi ho appena finito Lunar Park di Bret Easton Ellis, un libro che ho trovato vertiginoso.

Ci sono dei modelli a cui si ispira?

I miei modelli vengono sia dalla letteratura (Carver ovviamente) che dal cinema (Pialat tra gli altri) o dalla musica. Più che modelli diciamo che ci sono una serie di artisti che non si accontentano di coinvolgermi in quanto lettore ma il cui lavoro altera profondamente la mia scrittura, la nutre, la cambia. Per il resto da un punto di vista "paraletterario" tutti gli scrittori che hanno immerso le loro penne nella vita più che nell'inchiostro, tutti quelli che si sono tenuti lontani dalle piccole mondanità letterarie e non hanno mai deviato dal loro cammino di scrittura sono per me modelli: ma sono i più rari…

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