martedì 15 gennaio 2008

"VENERATI MAESTRI" di EDMONDO BERSELLI

"Succede, talvolta, di infatuarsi della grande cultura per le ragioni sbagliate, scambiandola per fighettaggine. Ancora adesso durante qualche serata solitaria mi faccio tentare, metto su Battiato di Prospettiva Nevskij, quella canzone che parla di suggestivi orinali sotto i letti e di un magico incontro con Igor Strawinskij, e leggo l’ultima scoperta adelphiana, un Niffoi, un Cameron. Ma le tinte pastello mi sembrano sempre più inattuali, confuse nell’opacità del contingente, private dell’eterno.”

Difficile ridere fino alle lacrime leggendo un libro soprattutto se l’autore non è un comico, ma un raffinato intellettuale, direttore di una rivista come “il Mulino”, eppure è quello che capita con Venerati maestri, soprattutto a tutti coloro che hanno più o meno attraversato esperienze simili a quelle descritte, che non hanno mai osato pubblicamente dire quello che qui viene spregiudicatamente scritto (il conformismo diffuso, l'ovvio dei popoli...) e si sentono finalmente salvati da un riso liberatorio.

Ecco un breve ritratto degli intellettuali: non leggono i bestseller, elogiano sempre e comunque i “venerati maestri” (cioè quelli che superata la fase di “belle promesse” non sono caduti nella categoria dei “soliti stronzi”) e possono essere catalogati in due diverse specie: quelli che vidimano il giudizio del grande pubblico senza porsi grandi problemi e quelli, piccola cerchia ristretta, “che vive in ambienti intossicati, vere fumerie d’oppio”, che parla di cose che interessano solo al gruppo, che non leggeranno mai Il Codice da Vinci, né compreranno l'ultimo Camilleri, ma che alla fine non se la sentiranno di dire di un film di Benigni (per non parlare di uno di Bertolucci), un salutare “è una boiata pazzesca!”.

Alberto Arbasino
A questo punto, dopo aver ben chiarito il tono e il tema del libro, ecco un assist a una generazione: quella che aveva il conto aperto con l’Einaudi e che era perseguitata da pagamenti spesso insostenibili per le finanze giovanili (ricordo che mio padre mi venne a un certo punto in soccorso…) e l’ironia si fa anche capacità di ridere della propria incrollabile serietà, di questa speciale malattia in cui cultura e passione politica erano un tutt’uno. Ma l’ala razionalista di Einaudi (il perfido, temibile geniale editore che ha fatto in certi anni della sua casa editrice un tempio della cultura laica e progressista), a un certo punto entra in crisi ed è da quella caduta dell’ideologia che nasce la costola irrazionalista: la “cattedrale insieme religiosa e profana dell’Adelphi” di Calasso che decreta contemporaneamente il passaggio dal collettivo al privato. Un intero capitolo è dedicato alla casa editrice dai colori pastello, “lo stile è tutto” pensa Calasso, accostando nel suo catalogo autori e titoli dalle stratosferiche lontananze. Questa infatuazione per lo stile fighetto e colto della casa editrice milanese viene però superato (in modo di certo meno traumatico di quello per quella torinese), se posso permettermi una nota, anche perché più recentemente talvolta ci si accorge di stare leggendo degli Harmony (con tutto il rispetto) di cui però non ci si vergogna di esibire sui mezzi pubblici la copertina (penso a La lettera d’amore della Shine) perché si è sotto la protezione di quel marchietto così discreto e raffinato.
Ecco poi Berselli passare nei capitoli successivi all’esilarante descrizione di un vero maestro, Claudio Magris (“un miracolo, una chimera”), alle prese con il direttore del principale quotidiano italiano, Paolo Mieli, e con le richieste di articoli strategicamente importanti: la loro finta conversazione è da leggere e rileggere per coglierne tutte le cattiverie sparse nella pagina.

Claudio Magris
Altro “maestro” che appare in questa immorale rassegna è Alberto Arbasino, o meglio il giocoliere Arbasinho, colui che ha dilatato all’inverosimile lo stato di “bella promessa” per passare poi direttamente a quello di “venerato maestro”.
Una bella digressione viene dedicata a un maestro molto particolare, quel Francesco Guccini, carducciano e simpaticamente massimalista-moderato a cui il grande italianista e critico letterario Ezio Raimondi una volta disse: “Lei, Guccini, canta l’etica con parole estetiche”, lasciando il cantautore "piuttosto dubbioso sull'esatta implicazione di quel giudizio".
Ma senza procedere con un noioso elenco: imperdibili certe battute fulminanti su Cacciari o le pagine sugli attuali politici della destra postfascista e l’improbabile ricerca di una cultura di cui possano vantare le comuni radici, o ancora il capitolo-verità su Montanelli o su quell’autentico liberale di Sartori, ma non dimentichiamo anche i passaggi perfidamente divertenti su Giuliano Ferrara, che “non è un genio, ma un talento”, l’amore/antipatia per Nanni Moretti o la verità controcorrente su La vita è bella di Benigni.
Baricco, divo-scrittore, è più volte citato a conferma di alcune tesi dell'autore e a lui è dedicata tutta l’ultima parte del libro con articolati pensieri irriverenti sull’ultimo prodotto del nostro, un romanzo assestato “esattamente a cavalcioni dell’epopea (e della prosopopea) romanzesca”, Questa storia, ma non viene risparmiata neppure l’ultima fatica in progress del non più così giovane scrittore, I barbari.
E per chiudere l’ultima definizione, la frase che condanna ma perdona questa Italia "in “un falò di conformismi, complessi di superiorità, idee sbagliate, revisioni arrischiate, pensieri forti divenuti deboli” ma dal trash, sottolinea Berselli, ci si può sempre salvare con “lo scarto inatteso dell’ironia” e lui sapientemente lo sa proprio fare.


Francesco Guccini
Le prime pagine

Nei momenti di malumore

Nei momenti di malumore, sempre più frequenti, io confesso che non mi piace nulla. Non mi piace un romanzo, non mi piace un film, la musica, la televisione, non mi piace praticamente niente di quanto viene prodotto in Italia.
Non mi piacciono gli indiscutibili. Non mi piace 'o presepio. Non mi piace Roberto Benigni. Non mi piace Susanna Tamaro. Ad aggravare questa malattia dello spirito, devo dire che mi piace sempre meno anche Nanni Moretti, e all'occorrenza saprei spiegare perché II Caimano è un film sbagliato.
Non mi piace Tornatore, non mi piace Salvatores. Avrei molti dubbi anche su Dario Fo, e per equilibrio bipartisan ammetterò in via preventiva che ero e sono scettico pure su Oriana Fallaci.
E su queste idee mi sembra di raccogliere il consenso dei miei maliziosi amici, che fanno ampi cenni di approvazione e confermano che è tutto vero, e si divertono un mondo a sentire le mie cattiverie, e aggiungono le loro con la soddisfazione sfacciata con cui si tirano le briscole alte nell'ultima mano.

Poi guardo i giornali, leggo le recensioni, assisto alle comparsate televisive quando viene lanciato un film o un romanzo, e mi dico: c'è qualcosa che non va.
Il qualcosa che non va è il conformismo diffuso, l'ovvio dei popoli, il velluto di ipocrisia collettiva che sembra avere coperto con una specie di indiscusso canone artistico, intellettuale e spettacolare l'Italia contemporanea, in ragione del quale tutti sono d'accordo con tutti, e nessuno obietta mai niente. È il regime ferreo degli infallibili, che inibisce qualsiasi critica. In privato si parla male di tutti, e si fanno sghignazzate sui grandi capolavori che vengono proposti dai mass media e sui protagonisti santificati dallo stereotipo; in pubblico, e cioè sui mass media e nelle occasioni ufficiali, ci si guarda bene dall'incrinare anche solo con un graffio il luogo comune e l'oleografia.

PRIMA DI PROSEGUIRE IL DISCORSO, credo che sia necessario da parte mia un atto di sincerità. Io non ho idee, non ho convinzioni, principi, «valori», ho solo dei modi di dire le cose, e se vogliamo proprio confessarlo, sono sinceramente relativista. Arriccio il naso quando qualcuno usa la parola «identità». Per semplificare, se quel prestigioso e testardo intellettuale maghrebino e banlieusard di Zinedine Zidane è convinto di avere subito un'ingiuria sanguinosa perché un difensore italiano ha rivolto delle brutte parole alle femmine della sua famiglia, credo di capirlo. Ho la vaga sensazione che per me, cittadino di una democrazia abbastanza avanzata e usufruttuario del repertorio di diritti, valori e disvalori dell'Occidente moderno, il codice antropologico di Zidane sia roba arcaica, frutto di una concezione che richiama la tribù, il clan, cerimonie faticose in cui si sta sempre in piedi, la gente ammucchiata in giacigli troppo affollati, dentro case troppo abitate. Ma se lui, «Zizou», ha di queste convinzioni, per me se le può tenere e coltivare, basta che non mi prenda a testate.
Questo a titolo di precauzione. Non tutti sono dotati infatti dello humour scettico e tollerante di Luciano Moggi, che andò a trattare con Zidane il suo passaggio alla Juventus in un grande e luccicante albergo di Marsiglia, e allorché vide entrare il centrocampista francese dalla porta girevole restò perplesso. Si trovò infatti davanti un tipo dinoccolato, in calzoncini corti e sandali infradito, un camicione colorato che lasciava intravedere il petto villoso, e uno stecchino all'angolo della bocca. Ma dopo quell'istante di perplessità avviò subito la trattativa, che prometteva di instradarsi per il verso giusto, e dopo avere raggiunto un accordo di massima concordò un nuovo appuntamento due settimane dopo.
Stesso albergo, stessa porta girevole e stesso Zidane, che arrivò tutto dinoccolato con gli infradito, i calzoncini, il camicione e lo stuzzicadenti fra le labbra.
Il relativista Moggi lo guarda con il suo sguardo liquido e gli fa: «Ahó, almeno potevi cambia 'o stecchino».


2006, Arnoldo Mondadori Editore

Berselli Edmondo - Venerati maestri. Operetta immorale sugli intelligenti d'Italia.
207 pag., - Edizioni Mondadori 2006 (Saggi)

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