sabato 23 febbraio 2008

A DIFFERENT KIND OF BLUE -MILES DAVIS

Gli archivi del regista Murray Lerner, che nell’agosto del 1970 filmò i tre giorni di concerto dell’Isola di Wight, “la Woodstock europea”, si stanno rivelando un vero e proprio deposito di tesori.

Oltre al documentario che racconta tutto il Festival, vincitore di un premio Oscar, negli anni più recenti il regista è riuscito a pubblicare i set completi di molti artisti che parteciparono all’happening: qualche anno fa uscì l’imperdibile concerto degli Who, con la performance completa di Tommy. Da poco sono stati pubblicati il concerto dei Jethro Tull, da vedere soprattutto per capire quanto fosse irresistibile il carisma di Ian Anderson a 20 anni, e la performance completa di Miles Davis.

Davis salì sul palco davanti a 600.000 spettatori (tuttora la più grande audience di un concerto rock) e suonò per 38 minuti filati con una formazione da far tremare i polsi: Jack DeJohnette alla batteria, Dave Holland al basso, Chick Coreae Keith Jarrett alle tastiere. Quando gli chiesero come si chiamasse il pezzo, con il suo tipico stile rispose “Call it anything”.

E sarebbe tradire lo spirito caustico di Davis iniziare a metter e in fila aggettivi per cercare di parlare di questa performance: l’unica sensazione che mi sento di trasmettere è l’impressionante energia che si percepisce fra i membri della band. Diversa dall’energia che scorre in un gruppo rock, si ha l’impressione che questi musicisti stiano seguendo un progetto più ampio, un suonare “diverso”, diverso nel ritmo, nella portata, negli scopi. E’ come se ognuno dei musicisti stesse leggendo un libro invisibile, aperto solo per loro.

Forse più di ogni altra cosa lo riassume il commento odierno di Keith Jarrett. “Eri in trance?” gli chiede il regista. “Buona domanda” è la risposta dell’ineffabile tastierista.

Il DVD curato da Lerner si propone come un documentario di una delle molti fasi creative della carriera di Miles Davis: la sua contaminazione con il rock, con gli strumenti elettrici come il piano Fender Rhodes e i primi sintetizzatori, l’influenza di Jimi Hendrix e l’uscita dell’album “Bitches Brew”, il più venduto album di jazz della storia.

Particolarmente interessante è il racconto della stroncatura che la critica dell’epoca fece di quest’album, attaccato come una svolta meramente commerciale, un concedersi alle mode, e invece difeso dai musicisti di Davis come sperimentazione, libertà creativa, allargamento degli orizzonti.

Si evidenzia così una delle forti contraddizioni interne che il jazz si porta dietro: la presenza di una componente conservatrice, “custode” di un crisma e di uno stile da mantenere “puro”, contrapposta ad uno spirito più contaminatore, calato nel suo tempo e pertanto permeabile pure ai suoi eccessi e ai suoi errori, ma pronto a rifletterlo nella propria musica.

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